Ospiti di Gengis Kan
di Sahara Sebastiani
Ci sono tanti buoni motivi per cui vale la pena di conoscere la Mongolia. Per esempio, quel suo essere così lontana e così diversa dagli ambienti a cui siamo soliti rapportarci. Ma ce n’è anche uno che oscilla tra mito e storia creando, attorno a questa nazione incastonata tra Oriente e Occidente, tra Russia e Cina, un alone di fascino e di mistero: questa, non dimentichiamolo, è la terra di Gengis Kan, dei dinosauri, del leggendario Yeti. E, soprattutto, c’è un motivo che non può lasciare indifferente chiunque sia innamorato della Natura con la “N” maiuscola: quel suo territorio fatto di pianure sconfinate, di deserto, di montagne che si rincorrono formando vallate che sembrano indistinguibili l’una dall’altra, è uno scrigno prezioso che racchiude una flora e una fauna incredibilmente ricche e varie. Un miracolo in un luogo coperto per almeno sei mesi all’anno dalla neve e dal ghiaccio. Un miracolo della Natura, appunto.
Dagli Altai al Gobi
La Mongolia è grande cinque volte l’Italia con una popolazione di circa 50 volte inferiore. Come dire che, se in Italia contiamo qualcosa come 200 abitanti per kmq, lassù il conto si arresta a 1,3. In più, siccome tanto le caratteristiche morfologiche quanto quelle meteorologiche rendono davvero parecchio difficili sia gli spostamenti, sia la creazione di città e villaggi, circa un terzo della popolazione vive concentrata nella capitale, Ulaan Baatar. Tutti gli altri, cioè i due terzi degli abitanti dell’intera Mongolia, sono nomadi. Nomadi molto speciali, che hanno saputo adattarsi a condizioni ambientali spesso proibitive. Una situazione che da spesso origine a conseguenze drammatiche: la mortalità infantile, per esempio, raggiunge il 60 per mille, e ancora oggi gli analfabeti sono quasi il 20 % della popolazione totale.
Schiacciata tra l’ex Unione Sovietica e la Cina, La Mongolia è geograficamente divisa in quattro zone ben distinte tra loto. A ovest protagonisti sono i monti dell’Altai (ed è qui che signore incontrastato è il mitico leopardo delle nevi). Il nord, invece, è caratterizzato dalla taiga, dai grandi laghi e dalle sterminate foreste di conifere: un’oasi naturale fantastica, dove non è affatto difficile imbattersi in lupi, orsi, volpi, daini, cinghiali e zibellini. Ma è dal centro all’est che il paesaggio mongolo trova la sua più celebre connotazione: è la terra degli altopiani e delle steppe, dove sono onnipresenti marmotte e diversi tipi di ungulati. A sud, infine, il deserto del Gobi domina il panorama portando alla vista animali ben noti ad altre latitudini come il cammello selvatico. Ovunque, nel cielo spesso minaccioso, volteggiano enormi rapaci, mentre nei corsi d’acqua nuotano indisturbati salmoni, storioni, trote. Intorno, una flora che, pur non conoscendo alberi ad alto fusto, può sorprendere per la sua varietà:sui monti Altai fioriscono l’astro alpino, il rabarbaro, la genziana, le stelle alpine, mentre lungo i greti dei fiumi si trovano cespugli di Artemisia e nel Gobi sboccia l’efedra, un piccolo arbusto dai fiori rossi.
Jurassic Park del terzo millennio
Il deserto del Gobi riserva non poche emozioni: è il più imponente museo a cielo aperto del mondo in fatti di resti di dinosauri. Le ricerche sul campo sono iniziate negli anni Venti e, da allora, sono stati ritrovati e ricostruiti un centinaio di scheletri completi di dinosauri, oltre che di uccelli rapaci, che vivevano qui 70 milioni di anni fa, quando l’uomo ancora non c’era e il Gobi era una regione umida, ricca di paludi che erano il regno di migliaia di dinosauri, dai tirannosauri ai velociraptor. Nell’estate del 2002 una spedizione italiana, capitanata dall’antropologo David Bellatalla, ha ritrovato nel Gobi i resti di un dinosauro con lembi di pelle ancora attaccati: uno scenario da Jurassic Park.
Meno fortunate, almeno finora, le ricerche del leggendario Yeti che, secondo la tradizione, sarebbe vissuto (o vive?) proprio in questa terra: si narra infatti che l’abominevole uomo delle nevi, che i mongoli chiamano “Almas”, viva vicino al fiume Katun, sui monti Altai. Per ora, però, non se ne è trovata traccia, se non una misteriosa “gamba” che, secondo gli studiosi, risalirebbe a migliaia di anni fa e non sarebbe compatibile ne’ con l’uomo, ne’ con un altro animale conosciuto: il ritrovamento è avvenuto nel 2003 su un ghiacciaio a circa 3.000 m di altezza. Dopo una serie di studi è risultato appartenere a un adulto che camminava eretto, ma non corrisponde a nessun animale vivente o estinto e nemmeno all’uomo visto che le dita dei piedi sono dotate di artigli posizionati al contrario. Fantasia? Illusione? Leggenda metropolitana? Chi lo sa: aspettiamo la prossima spedizione per saperne di più.
Sacralità e tradizione
C’è un rapporto strettissimo, sacrale e ancestrale, che lega i Mongoli al mondo animale. Tutto deriva dalla più ferma tradizione di questo popolo nomade abituato alle dure prove della natura: il rispetto per l’ambiente e, soprattutto, per gli esseri che lo abitano. Basti pensare che i loro caratteristici stivali, i gutul, hanno le punte rivolte verso l’alto per non ferire i piccoli animali che potrebbero incontrare sul terreno. Ma si possono anche ricordare le preghiere recitate dopo l’uccisione di una preda o la morte, per vecchiaia o malattia, di un capo del gregge. Una tradizione che si perde nella notte dei tempi, poi, vuole che i Mongoli considerino sacri cinque animali: il cavallo, il cammello, lo yak, la capra e la pecora, cioè gli stessi animali che vengono comunemente allevati e costituiscono tutta la ricchezza, oltre che l’unica possibilità di sopravvivenza, della popolazione nomade.
Del resto, se non fosse per la caccia indiscriminata che, negli ultimi anni, viene praticata soprattutto dagli occidentali, la Mongolia sarebbe un vero e proprio Eden per gli animali: la bassissima densità della popolazione, e le sue particolari condizioni climatiche, favoriscono lo sviluppo di una fauna selvatica rara che arriva a contare oltre 600 specie di vertebrati, 20 mila di invertebrati e un numero straordinario di uccelli e pesci. Tra gli esemplari endemici che popolano la Mongolia dal Gobi alla Siberia, dall’Altai ai confini orientali, meritano almeno una segnalazione l’Euchoreutes naso, chiamato volgarmente “ratto canguro”, che vive nel Gobi, e il suo piccolissimo parente (è lungo solo quattro centimetri) Salpingotus kozlovi. E non si possono dimenticare neppure il raro orso del Gobi, i cavalli Przewalski, o Takhi, i cammelli selvatici e il già citato, ma non per questo meno raro e leggendario, leopardo delle nevi, che sopravvive in pochi esemplari sui monti Altai. Info: www.mongolia.it