Un
viaggio lungo e impaziente mi ha portato
in terra eoliana, su un treno che ha
attraversato il sud fino a raggiungere
la città di Milazzo, da qui un piccolo
bus locale per una decina di minuti e
poi il traghetto, finalmente lo sbarco a
Lipari, l’isola delle Eolie più vicina
alla costa, a circa 40 km. Questo è il
periodo ideale per scoprire cosa
nascondono queste isole, la storia e le
tradizioni ancestrali custodite in fondo
al mare: la leggenda vuole che queste
isole vulcaniche furono create da Eolo,
Dio dei venti. Lipari è la terra della
pietra pomice, di ciottoli chiaro scuri
che rendono il bagnasciuga un dipinto
più che una semplice spiaggia, ma la
prima cosa che colpisce attraversando il
corso sono i mille colori dei prodotti
esposti fuori dai negozi, mescolati a
profumi dei capperi, delle acciughe e
dei limoni. I piatti accuratamente
dipinti a mano con giochi geometrici
ricordano i Paesi mediorientali in cui
la cultura dell’artigianato è
decisamente dominante; il profumo della
cucina del ristorante Filippino, uno dei
più famosi dell’isola, si sparge lungo
il Corso Vittorio Emanuele. Il nostro
appartamento aveva il pavimento antico e
stanze molto ampie: un’aria d’estate,
una piacevole sensazione di libertà e
freschezza. Dopo esserci goduti la
spiaggia di pietra pomice lucida e
brillante, ci incamminiamo per il Corso
fino a raggiungere il Museo Archeologico
sulla rocca, mastodontico, uno dei più
grandi d’Europa ed esistente dal 1954
per opera di Luigi Bernabò (archeologo
di spicco del XX secolo). Ci ha accolto
il Direttore del Museo, poiché il nostro
era un viaggio di ricerca nell’ambito di
un progetto universitario con la
cattedra di Antropologia Culturale. Il
Museo racchiude una serie di sezioni dal
Neolitico all’Età Bizantina, con reperti
affascinanti, minuziosamente lavorati:
le micro statuette in terracotta che
riproducono la figura di Dionisio, ci
danno indicazioni sulla cultura teatrale
e satirica dell’arte greca e scopriamo
attraverso le decorazioni funerarie, le
maschere e i gioielli, antichi rituali
dell’epoca pre-cristiana. Nella sala in
cui vengono ricostruite le stive delle
navi si respira solo odore di terracotta
e veniamo davvero catapultati in epoche
lontane, immaginiamo i mercanti
trasportare e sistemare anfore vinarie,
perfettamente incastrate in forma
piramidale. Anche la polvere ha quasi un
suo fascino per rendere la ricostruzione
ancor più verosimile. A riportarci al
territorio di oggi e al panorama reale è
una finestra dello studio del Direttore,
cui arriviamo alla fine del nostro
percorso: dall’alto si vede uno spicchio
di mare, il colore verde smeraldo che fa
un gran bel contrasto con il blu scuro
del mare in cui sta navigando un enorme
veliero.
L’arcipelago delle Eolie è composto da 7
isole e la prossima che visitiamo è
Salina: la più vicina a
Lipari, la più ricca di vegetazione, la
patria del cappero e la più elegante.
Abbiamo appuntamento a Lingua, frazione
di Salina, al Museo Etno Antropologico
con Don Tobia, un collaboratore del
Comune che più che altro è un
personaggio storico: ha più di 80 anni,
capelli lunghi raccolti in una coda,
orecchino e un patrimonio di esperienza
molto particolare: è stato lui a portare
la corrente qui a Lingua, grazie ad un
gruppo elettrogeno lasciato dagli
Americani in un deposito di Livorno dopo
la II guerra mondiale. E’ stato lui a
recuperare la maggior parte degli
oggetti che troviamo nel Museo, a
testimonianza di antiche tradizioni
molto prima che la tecnologia
facilitasse la vita quotidiana: scatole
in legno a forma di parallelepipedo con
gabbie metalliche, fungevano da
frigoriferi e venivano messe fuori le
finestre per conservare il cibo.
Don Tobia a Lingua è un’istituzione, ci
porta a piedi al ristorante A Cannata
che è anche albergo con stanze
panoramiche sul mare: in meno di 10
minuti arriviamo al ristorante, dove
assaggiamo i veri sapori siciliani:
pasta con tonno e melanzane spolverata
di mandorle e pinoli, involtini di pesce
spada ripieni di capperi, pan grattato,
mandorle e pomodorini, tutto delizioso e
squisito. A Salina si gira con l’autobus
pubblico che percorre l’intero perimetro
dell’isola oppure con delle comode
macchinette elettriche a due posti: noi
scegliamo di prendere l’autobus proprio
di fronte al ristorante e in circa 20
minuti arriviamo tra i comuni di Malfa e
Santa Marina, all’hotel Capofaro, dal
nome del faro che si trova a pochi
metri: una tenuta di 4 ettari della
famiglia Tasca d’Almerita, noti
produttori di vino: in particolare, la
malvasia sembra essere arrivata
sull’isola nel 588 a.c. con i
colonizzatori greci; è leggermente dolce
e ottima con i dolci. Quest’angolo di
mondo è gestito da una società del nord
e si sviluppa nell’enorme vigneto
confinante con la spiaggia: il bello qui
è che non si distingue il profumo della
vite dall’ odore del mare. All’interno
si può girare con un motorino che
fornisce lo stesso hotel, per
raggiungere le camere sparse per la
tenuta: la struttura della camera è
quella delle antiche case eoliane, molto
somiglianti ai dammusi di Pantelleria.
Tutt’altro genere di albergo, più
familiare e raccolto è il Signum, a
Malfa. La Direttrice dell’hotel è una
signora emigrata in Australia e tornata
a Salina con la consapevolezza delle
ricchezze dell’isola, della sua natura e
delle sue risorse anche professionali e
umane: è costruito in un vialetto di
alberi di limoni, con salette in legno
ricche di librerie e spazi di relax, il
personale è per lo più siciliano e
formato in funzione della soddisfazione
dei clienti. La formazione qui parte dal
basso, e incentiva i giovani a cogliere
le risorse dell’isola, proprio perchè
Salina è un’inestimabile fonte di
ricchezza per i suoi abitanti. Da
vivere e scoprire in libertà.
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