Non
fanciulle carioca e colori sgargianti e
le ore piccole a ballare il samba. Ma
onde lunghe, spiagge intatte
bianchissime battute dal vento continuo,
che allevia il calore del sole a picco.
Tutto ciò 300 giorni l’anno con una
temperatura costante di 28 gradi circa,
perché all’equatore non ci sono
stagioni, ma solo pioggia e sole.
Pioggia a febbraio e marzo di solito,
sole per dieci mesi continuati. E’ il
Brasile del Nord Est, degli stati del
Piauì e del Cearà, che, a parte
l’oasi di Fortaleza, sono davvero tutti
da scoprire, uno dei pochi paradisi
incontaminati da vedere in fretta, prima
che anche qui si moltiplichino le
strutture del turismo di massa. Davanti
alle spiagge di Jericoacoara si
inseguono i surf trainati dal vento su
onde bianche e lunghissime. La spiaggia
è arcuata fra il promontorio del Serrote,
roccioso e tozzo e la famosa duna bianca
Por do Sol, dove bisogna andare il
pomeriggio a vedere il tramonto
sull’oceano. In mezzo il paesino con il
suo ciuffo di palme, che deve essere
sembrato davvero un paradiso perduto ai
primi hippies che arrivavano qui negli
anni ’80 via terra da Fortaleza. Un
passa parola segreto aveva reso
Jericoacoara un luogo da sogno, da
riservare agli iniziati del turismo
alternativo in cerca di mete sconosciute
e preziose. Ma il passa parola ha avuto
una cassa di risonanza grandiosa nel
Washington Post Magazine, che nel 1994
ha collocato Jericoacoara tra le dieci
spiagge più belle del mondo. Da allora,
croce e delizia, Jerico ha avuto la
gloria di foto e reportage, ma anche lo
scoppio vorticoso di strutture e
ristoranti, posadas e alberghi. Per
fortuna l’altolà è arrivato nel 2002 con
l’IBAMA (Ente nazionale di tutela
dell’ambiente) e la dichiarazione di
Parco Nazionale. Da allora niente più
strade asfaltate e costruzioni, niente
macchine all’interno del villaggio e una
garanzia di salvezza per questo
splendore naturale. Ancora oggi, dopo
dieci anni di turismo, Jericoacoara si
presenta come un paradiso, soprattutto
venendo da est, dopo i lunghi chilometri
che lo separano da Fortaleza.
Pietre rosse, la marea che sale a vista
d’occhio, l’amplissima insenatura
nell’oceano e in fondo la sabbia bianca
della duna che introduce alle spiagge
dell’ovest. Un paradiso per il wind surf
e il kite surf, che trova nei venti del
promontorio la spinta ideale e anche per
i sundboarder, che si lanciano dalle
dune con la tavola di legno. Il nome del
villaggio ha un’origine incerta: secondo
qualcuno deriverebbe da Jacarà o
alligatore per la forma di una collina,
secondo altri deriverebbe da Juruco,
buca e Cuarà, tartaruga, perché qui le
tartarughe venivano a deporre le uova.
Se Jericoacoara è ormai un nome
piuttosto noto, non solo tra gli
iniziati al turismo di nicchia, molto
meno noto è Camocim, collocato
più a occidente, che pure merita una
visita e una sosta. Ci si arriva da
Jerico percorrendo ancora una parte di
questa costa del nord-est del Brasile
che, per 573 chilometri, è interamente
coperta da dune di sabbia alte fino a 50
metri, senza traccia di asfalto, di
corrente elettrica, di costruzioni in
cemento. Le dune buggy corrono veloci
sulla spiaggia tra falesie di sabbia
bianco rosa e il Sertao di caatinga,
bassi cespugli contorti che producono il
cajù, dai frutti colorati e dallo
squisito seme dell’anacardio. Lungo
l’oceano la marea può ritirarsi fino a
300 metri e alzarsi di 4, lasciando una
zona umida, perfetta per pescare granchi
rossi, che poi i ristoranti locali
servono ben rosolati in olio e pepe. A
perdita d’occhio, correndo con queste
automobiline a quattro ruote motrici,
dove si sta appollaiati dietro come in
una jeep da safari, dune, cespugli,
barche abbandonate. Le dune buggy si
inerpicano in cima alle montagne di
sabbia, seguendo piste appena segnate
che non lasciano intravedere
l’orizzonte, e si buttano giù a
precipizio, lungo la china bianca. Ai
piedi delle dune, grandi distese di
sabbia più scura e ancora umida, che,
nella stagione delle piogge, diventano
laghi e lagune, dove è possibile fare il
bagno. Tutta la costa del nord-est tra
Jericoacoara e Camocim appare un
territorio surreale fuori dagli
orizzonti consueti, disabitato, percorso
da venature di colori inimmaginabili,
blu, verde, grigio perlaceo, bianco
latte. Oltre le dune, spesso, boschi di
mangrovie in parte secche, che alzano le
loro radici aeree lunghissime, come se
un tempo il livello dell’acqua fosse
stato molto superiore. Le dune buggy
attraversano le mangrovie, rarissimi
villaggi fatti di tre case e due stalle,
boschi di alberi fitti, tanto da
chiudere il cielo. Il passaggio dei
corsi d’acqua si affida alla “balsa”,
una zattera spinta a mano con lunghe
pertiche e tutto è molto artigianale,
compreso il trasferimento della
macchinina, che sale a bordo per mezzo
di due tavole sotto le ruote. Affidati
all’esperienza di questi marinai, si
passa dall’altra parte, nel silenzio
surreale della laguna. In due ore di
questa corsa lungo l’oceano si arriva in
vista di Camocim, al di là del grande
fiume Coreaù, un paese nato nel 1650
come avamposto di fronte alla terra
degli indios. Nel 1880 la città ebbe la
ferrovia, poi abbandonata nel 1905,
quando Fortaleza assunse maggiore
importanza. Anche qui un traghetto,
anche se meno rudimentale, conduce
all’altra riva del grande fiume Coreaù.
Grande e popoloso, Camocim ha l’aspetto
di un tranquillo borgo di pescatori,
bellissimo al mattino presto, quando
tornano le barche colorate, Juanita,
Morenita, Georgiana, dalle vele
triangolari a spicchi colorati, a
portare il carico di pesce per le
contrattazioni sulla riva. Altrettanto
folkloristico il mercato di frutta e
verdura ricco di tutti i colori e i
sapori del mondo: papaia, cajù, acerola,
mango, melone, carambola, goiaba,
maracujà. Il fiume Coreaù si può
esplorare anche con una lancia che si
inoltra lungo le rive e porta
all’interno. Un altro fiume é ancora più
affascinante in questa regione
brasiliana. E’ il Parnaiba che
sfocia nel territorio dello Stato del
Piauì, direttamente nell’Oceano
Atlantico, formando un delta di 2700
chilometri quadrati. E’ il delta che
sfocia in mare aperto più ampio di tutta
l’America, superato nel mondo solo dal
Nilo e dal Mekong. Anche il Piauì è uno
degli Stati brasiliani meno conosciuti,
fino a dieci anni fa il più povero del
Brasile, del tutto ignoto al turismo di
massa. Non esistono strutture in grande
stile, né discoteche, né facilità di
trasporti, ma solo qualche posada, e
qualche resort gradevolissimo in riva
all’oceano, perfetto per fare base e
compiere escursioni nel delta. Si parte
di solito da Tatus con un battello o con
piccole lance alla scoperta di uno o due
bracci del delta. Costeggiando boschi di
mangrovie, ci si inoltra negli
“igarapès” i canali secondari dove le
barche dei pescatori si appartano in
silenzio, per ore, a caccia di granchi
rossi e di pesci volanti, ostriche e
gamberi. In alto passano uccelli rari,
garcas e guaràs. Un paradiso ecologico
assoluto, all’interno del delta, che è
tutto area protetta, è l’isola di
Caju, riserva privata della famiglia
inglese Clark, dove convivono cinque
ecosistemi. Il percorso in barca conduce
poi alle rive dove le donne lavano i
panni sbattendoli su grosse pietre, i
bambini si tuffano dai moli di legno e
le dune altissime nascondono le lagune
sulle spiagge deserte dell’oceano, in
una mescolanza potente di acque dolci e
acque salate. Il tesoro che Nicolau
de Resende aveva perso in un
naufragio nel 1600 forse è ancora
sepolto in queste acque, ma, come
racconta la leggenda, nei 16 anni
trascorsi alla ricerca di quanto aveva
perduto, Resende capì che il vero tesoro
era proprio il delta del Parnaiba,
tesoro naturalistico non ancora
completamente esplorato. Dopo le
escursioni sul fiume si torna in città
all’imbarcadero di Porto di Barcas,
che oggi ospita una serie di belle
botteghe artigianali, ma nel 1800 era
uno dei più importanti porti fluviali
del Brasile. Anche i palazzi coloniali
ricordano i tempi dorati della città
fondata nel 1762. Immensi magazzini
furono costruiti per lo stoccaggio delle
merci, carne secca e carnauba, una palma
che assicurava la materia prima per
illuminazione, medicinali, inchiostro e
numerosi altri prodotti. Era il tempo in
cui i bandeirantes, avanzando verso
l'interno, dovevano imbarcare cibi non
deperibili e una serie di oggetti di uso
quotidiano per rimanere mesi e mesi
dentro la selva. Non è facile ricordare
in questo Brasile moderno, dove Lula sta
avviando profonde riforme sociali, che
il questa nazione ha ottenuto
l'indipendenza solo nel 1821 e che, fino
al secolo diciannovesimo, gran parte del
suo territorio era ancora da esplorare e
da organizzare completamente.
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