E’ finita. Inizia nella mia memoria il
film di questa emozionante avventura,
chissà perché ma in questo istante non
salirei in sella per un chilometro. Ma
Enzo, fido compagno e
trascinatore nelle tappe più dure vuole
finire alla grande. L’autobus per
l’aerostazione ha il sapore dell’onta
per chi ha tirato 80 chilometri nella
tempesta del Connemara e ha bruciato
d’un colpo la salita di Conor Pass, per
lui il viaggio deve finire laddove si
decollerà. Grazie a Dio che le bici non
galleggiano.
D’accordo che 10 chilometri sono
decisamente “poca roba”, ma quando non
sei in trappa diventano eterni, ed il
tempo se ne va tutto in rimembranze e
superlativi, e Dio solo sa per quanti
giorni ne avremo.
Caso unico lo steward è lo stesso di una
nostra precedente avventura, ci
riconosce e commette l’errore di
intervistarci, a tal punto che per
mollarci ci trasferisce in coda e ci
rimpinza di ogni bontà, di piatto e di
bottiglia per la gioia di quel
golosastro di Enzo.
Ma si sa, il viaggiatore viaggia per il
piacere personale ma anche per piacere
di tramandare quanto ricevuto dai suoi
pellegrinaggi, convinto com’è di
riuscire a contagiare della sua passione
il più chiattone degli interlocutori. E
quando parte la giostra di certe
emozioni è duro fermarla, e credetemi,
questi 21 giorni di emozioni ce ne hanno
regalate in quantità sufficienti da
poter definire questa scarriolata con un
solo aggettivo: grande. E grande è tutto
quanto abbiamo trovato nell’isola di
smeraldo, senza falsa retorica ed
inconscia supervalutazione di quanto hai
fatto solo per il fatto che è il frutto
della tua fatica. Pedalare per credere!
Per credere che qui alberga la gente più
semplice e cordiale che si possa
incontrare. Sempre allegri e loquaci,
buoni da morire. Quando glielo dici si
stringono nelle spalle, allargano il
sorriso e rispondono che il segreto sta
semplicemente nell’essere … irlandesi!
Ti fermi per chiedere informazioni di
percorso e ti coinvolgono in una vera e
propria intervista col finale volto ad
accertarsi del tuo stato di
soddisfazione nei riguardi di luoghi e
soggetti.
“Il Signore ci ha dato una terra ricca
di pioggia, ma ci ha messo noi ad
arricchirla di allegria”, mi ha detto un
anziano al tavolo di un pub di Clifden
il giorno che buscammo 80 chilometri di
doccia su 92 percorsi, ed è vero.
Che tu faccia sosta in un ostello o in
un B&B sei immediatamente “di casa”.
Sarà anche vero che il cicloviaggiatore
si porta sempre appresso un misto di
fascino e di curiosità, ma riescono
molto bene a farti sentire l’ospite di
riguardo, specie quando dalla
pantagruelica colazione dei B&B ti
scivolano nelle borse un notevole
rifornimento per la giornata.
E se per caso ti trovassi nel bel mezzo
di una serata danzante come è capitato a
noi alla “Monroe’s tavern” di Galway i
casi sono due o scappi o balli, senza
tanti formalismi, e magari ci scappa
pure che ti applaudano e ti porgano una
pinta di Guinness.
Il più piccolo e sperduto paesino ha il
suo pub, centro di aggregazione serale
per tutti e per tutte le età, con
l’immancabile “band” di musica celtica
ed il barista indaffarato a colmare
boccali sempre vuoti. Grazie a Dio sai
che il giorno dopo ti aspettano altri
chilometri e scappi al momento
opportuno, perché “l’onda” sarebbe
sempre quella giusta.
Popolo orgoglioso delle proprie radici,
con i cartelli segnaletici in doppio
idioma gaelico – inglese, quel gaelico
che tutti ti diranno essere la vera
lingua confinando l’inglese a “political
language”, e che nelle scuole
costituisce addirittura materia di
studio.
Popolo con la più sobria e bella
gioventù che possa esistere:
tradizionalista come si conviene a chi
abbia una storia di cui andare
orgoglioso ed un’identità da tramandare,
e moderna come si conviene a chi sappia
vivere bene e con profitto il proprio
presente.
Gioventù pratica all’eccesso: talvolta
pare escano di casa dopo essersi vestiti
al buio, ed i numerosi negozi di
rigattiere sono sempre affollati di
qualcuno in cerca di qualche cosa.
Piazzarsi
lungo le isole pedonali guadagnandosi
qualche sterlina suonando il proprio
strumento non è certo un disonore, e
posso assicurarvi che i “buskers” di
quassù sono tra i migliori che abbiate
mai incontrato.
Suonare e cantare è un fatto di cultura.
Fatevi una passeggiata per il “Temple
bar Dublin’s cultural quarter,”dove una
volta c’erano solo palazzi fatiscenti,
poi Dublino lo regalò ai giovani, che
cambiarono il grigio dei muri con
colorati graffiti e cominciò a popolarsi
di una fauna composta da pittori,
attori, musicisti, ed oggi è una
cittadella della cultura. Un popolo
libero, creativo come solo la gente
libera sa essere. Popolo dove spesso il
tempo pare essersi fermato.
Non soltanto nelle gelose tradizioni,
quanto in tante piccole cose, in tanti
piccoli scorci, oggetti, angoli delle
case, piccoli empori; un trattore, una
casa nel Connemara con il tetto di
paglia, un fuoco di torba, il negozio di
quel paesino del Donegal che insieme
funge da tutto un po’, con ogni cosa per
ogni dove, in un disordine
impressionante.
Sicuramente la meteo particolarmente
amica (solo quattro giorni di pioggia)
ci ha presentato un quadro
particolarmente entusiasmante dal punto
di vista paesaggistico, l’erba è di un
verde tale che viene letteralmente
accesa dal sole, e quelle scogliere
incise di netto come da mano d’uomo, ti
amplificano il senso d’infinito
dell’oceano. Ma credetemi, parola di
viaggiatore, la bellezza di un luogo è
data da chi lo abita, per questo il
paradiso si chiama così. E la gente
d’Irlanda è il patrimonio più grande
questa isola così ingiustamente
martoriata nel passato da guerre,
carestie, e vessata per secoli da un
colonialismo inglese che nel bellissimo
Nord Ovest assume ormai i toni del più
risibile anacronismo. Oggi così
giustamente desiderata e amata da chi,
come noi, ha provato a pedalare fino al
centro del suo cuore.
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